venerdì 19 luglio 2013

LA QUESTIONE PALESTINESE

Ovviamente il nostro blog non poteva ignorare la questione palestinese ed è per questo che abbiamo deciso di pubblicare un ottimo articolo-intervista ripreso da Osservatorio Iraq e preceduto da un piccolo accenno di storia.



Dal 1948, anno della nascita dello Stato d'Israele, la popolazione palestinese è costretta a vivere in lembi di territorio dove coesistono al suo interno povertà, malattie e sovraffollamento continui.

Le condizioni disumane di questo popolo però vengono decise molto prima di quella data e cioè a cavallo tra l'ottocento e il novecento con la Dichiarazione di Balfour, dove il governo inglese prometteva l'insediamento di un focolare nazionale ebraico nella vecchia Palestina. Questo movimento migratorio, fomentato dal pensiero sionista, fu finanziato e caldeggiato ,quindi, anche da Inghilterra e Stati Uniti.
Il problema era che la Palestina non era una arido deserto privo di persone ma un territorio ben strutturato con una sua popolazione autoctona formata in larga maggioranza da palestinesi musulmani sunniti che parlavano arabo e altre minoranze, ben integrate, come cristiani, drusi e sciiti.
Ma non importava, l'invasione venne eseguita, fu proclamato nella primavera del 48' lo Stato d'Israele e la conseguenza portò, da parte dell'intero occidente e chiaramente d'Israele, alla negazione dell'esistenza del popolo palestinese.

Questo oscurantismo, sfociò in quattro conflitti arabo-israeliani principali:
la prima guerra arabo-israeliana iniziò nello stesso anno della proclamazione dello Stato d'Israele, nel 1956 avvenne la guerra contro l'Egitto per il Canale di Suez, nel 1967 ci fu la Guerra dei sei giorni  ed infine nel 1973 la Guerra del Kippur. Le varie guerre portarono ad una sorta di "normalizzazione" e obbligarono le Nazioni Unite ad ammettere l'esistenza di un soggetto internazionale chiamato Palestina.

Qualche sforzò di trovare una soluzione dalla Comunità nazionale fu fatto, come ad esempio la Risoluzione "due stati, due popoli", la quale prevedeva la creazione di due stati separati nella parte occidentale della Palestina storica, uno ebraico, l'altro arabo. Gli Accordi di Camp David nel 2000, una dichiarazione trilaterale tra il Presidente degli Stati Uniti Clinton, il Primo Ministro israeliano Barak e il Presidente dell'ANP Arafat, la quale prevedeva la cessazione di ogni conflitto e il raggiungimento di una pace giusta e duratura.
La Conferenza di Annapolis, svoltasi nel 2007 tra i maggiori partiti palestinesi (Fatah), israeliani e americani, che prevedeva come punto cardine di partenza la classica soluzione di due stati distinti e la fine dei conflitti ma i problemi che emersero vertevano sulla spartizione dei confini e i profughi palestinesi.

Questo è il cambiamento del territorio Palestinese dal 1945 al 2000:



Ovviamente i supplizi e le pene dei Palestinesi non sono ancora finiti e continuano a subire costanti minacce di espropriazioni, demolizioni, evacuazioni forzate e molto altro ed è per questo che vi proponiamo il caso dei palestinesi residenti a Masafer-Yatta, nelle colline a sud di Hebron:

Osservatorio Iraq intervista Tamar Feldman, avvocato che difende i palestinesi a nome dell’ACRI. 
Vivere per oltre un decennio sotto la costante minaccia di demolizioni, evacuazioni forzate ed espropri. Non poter costruire case, pozzi, scuole, strade ed essere costretti ad abitare in caverne scavate nel terreno. Senza elettricità, acqua corrente né alcun tipo di comfort moderno. 
E’ la condizione quotidiana degli abitanti di 12 villaggi nell’area di Masafer-Yatta, a sud di Hebron, nella Cisgiordania occupata.
Una condizione che, seppur resa più grave negli ultimi 13 anni, era già precaria sin dagli anni ’70. E’ da allora infatti che Israele considera l’intera area un “zona militare chiusa”, sottoposta perciò alla legislazione militare, e al volere dell’esercito.
Qualsiasi azione, movimento o iniziativa che un residente voglia intraprendere deve passare necessariamente per il braccio armato dell’occupazione israeliana. E la risposta è quasi sempre negativa.  
Ciononostante la popolazione palestinese locale ha sempre reagito. Sin dal 1999, quando all’ordine di evacuazione totale dell’area gli abitanti dei villaggi risposero con numerose petizioni che portarono la Corte Suprema a pronunciare una sentenza che permise loro di fare ritorno sulle proprie terre temporaneamente.
Gradualmente poi la popolazione ha sviluppato forme di resistenza nonviolenta che probabilmente non hanno pari in Cisgiordania: ad ogni struttura distrutta, i palestinesi reagiscono ricostruendo di nuovo. Per ogni tentativo di arresto, tutti accorrono per fare blocco attorno al diretto interessato, con le donne in prima fila.
Esempi di solidarietà che però non resistono da soli e che necessitano dell’aiuto, prezioso, di chi può sfidare lo Stato su quel terreno in cui originano le sue principali difficoltà: quello della legalità.
I membri dell’Association for Civil Rights in Israel (ACRI) fanno questo di mestiere: chiedono a Israele di rendere conto delle gravi mancanze in materia di diritti umani e di rispetto dello Stato di diritto. L’avvocato Tamar Feldman è una di loro, e nello specifico si sta occupando del caso della Firing Zone 918 a nome dell’ACRI. 
Osservatorio Iraq l’ha contattata per approfondire la questione e capire quali sono i possibili sviluppi in seguito alla recente mancata presentazione della posizione dello Stato di fronte ai nuovi ricorsi presentati dall’ACRI per conto degli abitanti dei villaggi contro gli ordini di espulsione. 

I recenti sviluppi rappresentano l’ultimo tassello di un contenzioso di cui l’ACRI si sta occupando da tanto tempo…
Le nostre petizioni rappresentano soltanto il 'secondo round' di una lunga battaglia legale che la nostra associazione sta portando avanti contro la forza occupante, che considera l’area di Masafer-Yatta una “zona di esercitazioni militari”. 
Abbiamo iniziato ad occuparci del caso nel 2000, quando circa 700 persone furono costrette ad abbandonare le proprie case a causa di un ordine militare che stabiliva la non permanenza della loro residenza – dunque, nella logica dell’occupante, potevano essere espulsi. I ricorsi contribuirono alla decisione temporanea della Corte Suprema che permise ai palestinesi di tornare nei propri villaggi, fino alla sentenza definitiva. Ma non ha cambiato lo status dell’area – rimasta “militare” - e pertanto non edificabile se non su permesso dell’esercito. 
Una temporaneità che è durata oltre 12 anni, fino alla scorsa estate, quando lo Stato ha reso nota la sua posizione finale sulla zona: oltre a confermarla “necessaria” per le esercitazioni militari, ha ordinato l’evacuazione di circa 1200 palestinesi residenti in 8 dei 12 villaggi. A questa nuova posizione abbiamo risposto all’inizio del 2013 con ulteriori ricorsi, contestando ancora una volta con forza le intenzioni del governo: annullare gli ordini di evacuazione,  cancellare lo status di “zona militare chiusa” e riconoscere tutti i villaggi palestinesi, in modo da permettere una vita normale ai suoi abitanti. 

In che modo si può spiegare, a questo punto, la scelta del governo di non presentare in tempo utile la sua posizione di fronte alle richieste contenute nelle petizioni?
Se lo Stato avesse voluto permettere alla Corte di svolgere regolarmente il suo lavoro avrebbe dovuto presentare le sue risposte alle nostre ultime petizioni già a marzo. In realtà una risposta c’è stata, ma soltanto parziale e attinente unicamente a questioni procedurali. Per questo ciò che era atteso il 12 luglio, dopo continue e vane sollecitazioni, era di esprimere una posizione sul merito e la sostanza, ma non è avvenuto. Di conseguenza la Corte ha dovuto rinviare l’udienza al 2 settembre, sempre se lo Stato si deciderà a presentare la sua posizione entro i termini della nuova scadenza: il 29 luglio. 

Come potrebbe reagire la Corte nel caso in cui neanche la prossima scadenza venisse rispettata?
Nel comunicato della settimana scorsa il vice-presidente della Corte Suprema Miriam Naor è stato molto duro nell’esprimere il suo disappunto per questo ritardo ed ha lasciato intendere che non tollererà un’ennesima mancanza da parte dello Stato.
Tuttavia non possiamo negare che comportamenti del genere non rappresentano l’eccezione in Israele: è già successo varie volte in tanti altri casi. Ma questa volta, come ha sottolineato il giudice Naor, c’è qualcosa di oltraggioso, perché pone in condizioni non favorevoli non solo la controparte - in questo caso noi in quanto ACRI e ovviamente i palestinesi - ma anche lo stesso organo giudicante che pertanto è ostacolato nel suo lavoro. 
A differenza di altre situazioni, questa volta credo che lo Stato non chiederà un’ulteriore proroga: si esporrebbe ad un conflitto davvero problematico con la Corte Suprema. 

Nonostante continui ad insistere sulla necessità dell’area per “tenere in forma” il suo esercito, per usare le parole dell’ex-ministro della Difesa Ehud Barak, secondo uno studio di B’tselem lo Stato avrebbe chiuso le due basi militari principali presenti nelle colline a sud di Hebron già nel 2005…
Sì è vero, e questo potrebbe essere un esempio delle sue contraddizioni nel giustificare la propria posizione. Il problema però risiede nel fatto che, in pratica, sia prima che dopo il 2005 con un ultimo episodio risalente allo scorso gennaio, le esercitazioni lì si sono sempre svolte.  E anche se vengono condotte con armi cosiddette “leggere” oppure utilizzando spostamenti di carri armati, resta il fatto che creano molti danni alla popolazione locale. 
Non solo danneggiando i campi agricoli e distruggendo strutture in cemento, ma più semplicemente innescando sentimenti di paura presso gli abitanti dei villaggi, in particolare i bambini. Bisogna considerare che durante le esercitazioni le restrizioni alla libertà di movimento sono praticamente totali: i palestinesi non possono uscire di casa quando sono in giro i carri armati. 
In tutte le petizioni che abbiamo presentato alla Corte Suprema uno degli obiettivi risiede nel considerare nel senso più ampio possibile l’ordine temporaneo del 2000: tornare sì nei propri villaggi, ma permettere loro di poter condurre una vita normale. 

Un’altra argomentazione per giustificare l’espulsione dei palestinesi da Masafer-Yatta consiste nel fatto che gli abitanti dei villaggi non sarebbero residenti permanenti, bensì nomadi e pertanto lo Stato potrebbe appropriarsi di quelle terre. Qual è la verità secondo voi?
Questa è una delle ragioni sulla quale lo Stato ha insistito sin dall’inizio per poter sostenere il suo operato. Ma è stata smentita così tante volte che dubitiamo che possa essere ribadita nella nuova posizione, quando vedrà luce.
L’assunto alla base di questo discorso per Israele è il seguente: le abitazioni della popolazione locale risulterebbero come seconda casa o come strutture stagionali, dato che tutti i palestinesi dell’area sono registrati nella vicina città palestinese di Yatta. Qui però siamo di fronte ad argomentazioni assurde perché, prima di tutto, una persona può avere più di una casa e non necessariamente vivere in quella presso la quale ha la residenza. E in secondo luogo, il fatto che siano registrati a Yatta dipende principalmente dal non riconoscimento dei villaggi da parte dello Stato… Yatta è semplicemente l’unica cittadina vicina riconosciuta dall’occupante.
Secondo i nostri studi, dei circa 1300 palestinesi residenti nell’area oltre 1000 ci vivono senza effettuare spostamenti rilevanti nel corso dell’anno. E inoltre la quasi totalità di loro è in grado di dimostrare la legittima proprietà del terreno che abita. Ma questo è un fatto che lo Stato neanche contesta.

Ma perché quest’area è di così vitale importanza per Israele?
Questa è una domanda che bisognerebbe rivolgere direttamente allo Stato…Stando all’ultima posizione presentata, l’area sarebbe “fondamentale per le esercitazioni militari – cita documenti ufficiali, ndr – in particolar modo dopo la Seconda Guerra contro il Libano, quando emerse una maggiore necessità di luoghi in cui svolgere addestramenti militari”.
La verità è che le colline a sud di Hebron sono una delle terre più fertili di tutta la Cisgiordania: le considerazioni relative alla sicurezza c’entrano ben poco, anche perché Israele non ha mai fornito alcun dettaglio del particolare tipo di esercitazioni di cui avrebbe bisogno.
Secondo il diritto internazionale umanitario la forza occupante può utilizzare determinate aree per scopi militari fintanto che siano strettamente necessari. Ma la terminologia generica adottata serve già a contraddire questa necessità. E in aggiunta, anche se le fossero dimostrate, questo non può mai, in alcun modo, comportare l’espulsione della popolazione residente. 

Al contrario dei palestinesi, gli abitanti delle colonie in prossimità dell’area, come Ma’on o Ha’vat Ma’on, vivono in condizioni radicalmente diverse…
La presenza degli insediamenti e degli avamposti rappresenta un’ulteriore aggravante della già critica situazione in cui versano i palestinesi di Masafer-Yatta. A risentirne è la loro sicurezza, sottoposta spesso a numerosi pericoli a causa delle azioni di disturbo e criminali perpetrate dai coloni nel modo più gratuito. Come accade ad esempio ai bambini del villaggio di Tuba, che ogni mattina per andare a scuola passano per l’avamposto di Ha’avat Ma’on scortati dall’esercito per evitare di essere attaccati. 
Nei confronti degli insediamenti, d’altronde, l’atteggiamento di Israele rimane quello prevalente nel resto della Cisgiordania: tolleranza, impunità e non applicazione del diritto. E per quanto riguarda il caso specifico della Firing Zone 918, guardando la mappa si nota che alcuni settori delle stesse colonie ricadono nell’area, quindi in teoria dovrebbero anche queste essere considerate oggetto di esercitazioni militari. Tuttavia, secondo la pianificazione della Firing Zone 918, una piccola porzione non dovrebbe essere interessata da alcun tipo di attività militare: non a caso, gli insediamenti si trovano proprio lì. 
Così facendo, in pratica, Israele ha escluso le colonie dal contenzioso legale. 

Oltre al caso della Firing Zone 918, l’ACRI è in prima linea anche in altre situazioni in cui il rispetto dei diritti umani si scontra con l’occupazione: cosa significa per voi fare questo lavoro? 
Significa cercare, per quanto difficile, di distanziarsi dalle questioni politiche. 
Il nostro lavoro si basa sulle conseguenze, su ciò che nella società israeliana è il risultato inevitabile di un complesso contesto politico. Ma le conseguenze, seppur provenienti dalla politica, devono relazionarsi con lo Stato di diritto: prima di tutto il diritto internazionale umanitario, poi il diritto internazionale e infine quello interno, le leggi israeliane. Il nostro obiettivo è quello di agire affinché i diritti di tutti vengano rispettati e chiedere conto all’occupante, nel caso dei Territori Palestinesi, e allo Stato, internamente ad Israele, di ogni violazione.
Questo significa sicuramente non essere popolari. Spesso veniamo descritti come “nemici di Stato”, ma la ragion d’essere della nostra organizzazione non è ricevere consensi: noi crediamo che difendere i diritti sia fondamentale per la salute della democrazia in cui viviamo. 
L'articolo lo potete trovare qui

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